La Repubblica
Pronto soccorso nel caos così muore la dea ragione - Mario
Pirani
Nei giorni scorsi le cronache romane erano dominate
dall’emergenza dei pronto soccorso. Gli ospedali erano pressoché ricolmi, i
pochi posti liberi contesi, le ambulanze libere scomparse, 23 erano
immobilizzate nei piazzali degli ospedali e non potevano muoversi perché le
barelle con le quali avevano trasportato i pazienti erano state requisite per
far distendere i ricoverati in attesa di un letto. Proseguiva la ricerca di
ambulanze private o della Croce Rossa da affittare a debito. Non restava che
lanciare da un nosocomio all’altro appelli telematici di soccorso. Dopo alcune
ore, la governatrice dimissionaria annunciava con sollievo che la situazione
andava migliorando. Almeno per quel giorno. Allarmi simili erano risuonati
sovente negli ultimi mesi, suscitando proteste, interventi d’urgenza, inchieste
della magistratura, approfondimenti indignati della stampa. Eppure alla fine
ogni grida appariva inutile. Le cause venivano elencate, più o meno le stesse,
della volta precedente: in testa le esigenze di risparmi e tagli di fronte
all’accumularsi dei debiti e degli sprechi , che hanno colpito, in primis, il
numero di posti letto in rapporto al livello dei grandi ospedali qualificati, destinati
a pazienti acuti e gravi e non per lungo degenti. Questi pazienti, dopo il
primo ricovero d’urgenza, dovrebbero trascorrere un periodo relativamente breve
in un reparto di osservazione (un tempo si chiamavano astanterie) dove, una
volta accertata a fondo la diagnosi, sia possibile stabilire un percorso terapeutico
al di fuori dell’ospedale. I cosiddetti piani di rientro con rigidi obiettivi
di risparmio hanno penalizzato anche i letti di questi reparti. Qui si acutizza
periodicamente il blocco dei mezzi di soccorso: i pazienti che andrebbero
ricoverati nei reparti di cura non trovano posto e restano al Ps e, quando
questo è pieno, rimangono su barelle di fortuna o su quelle che li hanno
trasportati all’ospedale, in attesa che da qualche parte si apra uno sbocco.
Alle volte un’attesa di giorni. Posto in questi termini il problema appare
irrisolvibile. Ma sarebbe possibile una diversa organizzazione, basta uno
sguardo ai numeri: nel 2011 il servizio 118 ha utilizzato 293 mezzi (ambulanze)
per fornire prestazioni con una media di 937 soccorsi giornalieri. Di questi soccorsi
il 21%, quasi un quarto, erano codici verdi, cioè stando ai parametri medici
non avevano alcun bisogno di ricovero ospedaliero, e sarebbe bastato un
intervento territoriale. Inoltre i dati relativi al Lazio mettono in evidenza
che nel 2011 su 2.034.454 accessi ai pronto soccorso, solo il 17% è arrivato
con ambulanze, mentre l’83% è arrivato con mezzi autonomi e il 71% in base a una
propria decisione, ovvero non c’è stata alcuna funzione di filtro da parte di
strutture sanitarie (medico di famiglia, specialista, inquadramento
territoriale). Va anche considerato che all’uscita ben il 67% torna a casa
senza alcun bisogno di ricovero ospedaliero, il 4% si allontana spontaneamente,
il 3,4% non risponde alla chiamata. Appare chiaro che le motivazioni principali
del sovraffollamento risiedono nell’utilizzo improprio delle strutture territoriali,
nell’insufficiente filtro ambulatoriale dei medici di famiglia, e nelle liste
d’attesa per le prestazioni specialistiche ambulatoriali. Inoltre occorre tener
presente che anche per i pazienti che necessitano delle strutture di emergenza,
molta parte del tempo di attesa al Ps è dovuto alla necessità di eseguire
indagini e consulenze specialistiche per arrivare a una diagnosi e a una
collocazione del paziente. Se una parte significativa di tale attività fosse
svolta in strutture di livello inferiore e comunicata con mezzi telematici alla
struttura superiore che funge da Hub si potrebbe ottenere una maggiore fluidità
del flusso dei ricoveri necessari, un miglioramento dei tempi di attesa e degli
esiti diagnostico terapeutici. Tutto è già stato scritto e molto già
sperimentato nelle regioni con una migliore organizzazione sanitaria, si tratta
di applicarlo e farlo rispettare in quelle ancora disastrate come per l’appunto
il Lazio. La Sanità è l’unica scommessa importante da vincere per chi andrà a governarlo.
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